Presentare, spiegare Venezia, la “deliziosa assurdità” di Voltaire, è impresa che fa trema le vene e i polsi. È possibile spiegare l’assurdo? E poi, quale Venezia?
C’è la Venezia solare e feconda delle coppie in viaggio di nozze, c’è la Venezia multicolore dei turisti che si fanno fotografare davanti a S. Marco infiocchettati di colombi, c’è la Venezia dellavvenire che si dibatte fra acqua alta e redditi bassi, e quella del passato, porto della malinconia per i decadenti, che cercano nelle sue pietre consunte dalla salsedine, nel suo sontuoso sfacelo, un’impossibile pace per i loro mali squisiti.
All’Albergo Danieli qualche curioso si fa indicare dal portiere le stanze n. 9 e n. 10 dove il poeta e la scrittrice francesi Alfred de Musset e George Sand consumarono amori e baruffe, e per troncare la loro passione non trovarono di meglio che dirsi addio sotto i cipressi d’un cimitero, al Lido.
Romanticismo obliare. Cose che mandavano in bestia Filippo Tommaso Marinetti. Una settantina di anni fa, nel luglio del 1908, l’apostolo del Futurismo lanciò sulla città migliaia di manifestini incitanti i Veneziani a “bruciare le gondole, poltrone a dondolo per cretini”, a liberare Venezia dal “suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata”.
E chi avrebbe operato il miracolo? La divina luce elettrica, assicuravano i futuristi.La luce elettrica è arrivata, è arrivato anche il ponte stradale traslagunare, e con esso le industrie, ma i problemi, lungi dal risolversi, si sono aggravati, perché questa è la città pia complessa e sfuggente del mondo, la sua natura anfibia si ripercuote in ogni manifestazione della sua vita,sica e spirituale, del singolo e della collettività.
Qui ogni cosa è bifronte e contiene in sé il suo contrario, come nel flusso della marea è già implicito il riflusso, e ogni tentativo di interpretarla si avventura in un labirinto di seducenti ambivalenze e contrapposizioni: la natura e l’uomo, il passato e il presente, l’Adriatico e la terraferma, l’Oriente e l’Occidente, l’ombra e la luce, il Gotico e il Barocco, le gondole e i motoscafo, i mosaici e le petroliere, i cieli azzurri di Tiziano e quelli foschi di Marghera.
Il gioco delle antinomie potrebbe continuare all’infinito, perché Venezia stessa è una suprema antinomia, una seda alla natura, un’eccezione della storia. Guardate il Palazzo Ducale: è una sfida alle leggi della statica, con gli aerei trafori in basso che sorreggono un massiccio cubo di pietra. Venezia nacque come sfida al mare, là dove nessuna persona sensata si sognerebbe di costruire una città: sul fango di una laguna.
Per sottrarsi gli Unni invasori, gli abitanti del litorale si rifugiarono nelle isole dell”estuario, organizzandosi in una comunità che riusca a tenei testa,a ovest, alla pressione dei Franchi, e riconobbe a est l’autorità di Bisanzio solo perché l’imperatore era troppo lontano per esercitarla. Salinai, pescatori, traghettatori di pellegrini in viaggio sulla strada Romea, poi marinai e soldati alla conquista della Dalmazia, gli albori del secondo millennio, quando sul resto d’Italia pesava la coltre dei secoli bi. Il primo doge, Paoluccio Anafesto, è dell’VIII secolo, l’ultimo, Lodovico Manin, sarà rovesciato da Napoleone: mille anni di unità e di indipendenza nazionale, soltanto l’Impero romano vanta eguale longevità, e i Veneziani possono essere considerati, per solida costituzione,per spirito d’intrapresa, per coraggio militare, i Romani del Medioevo.
Ma, a differenza di Roma, calpestata dai Galli, Venezia non fu mai invasa da esercito straniero. Non conobbe né feudalesimo né guerrigliadi fazioni.
La sua forma di governo (altra sfida!) fu la pia avanzata per quei tempi, un misto di monarchia, il doge, e di aristocrazia, il Maggior Consiglio, in una parola, un”illuminata oligarchia. Se non fu un governo di popolo, fu sicuramente un governo per il popolo,come dimostra il fatto che i rari tentativi di rivolta partirono dalla classe nobiliare, per gelosia di famiglia, per ambizione di potere.
I Veneziani sapevano di vivere nella Repubblica pia stabile e prospera dell’Occidente: nelle terre di S. Marco si rifugiavano, come nell’Ottocento Foscolo e Mazzini in Inghilterra, gli esuli messi al bando dai rissosi Comuni italiani.Era una Repubblica fondata sul sospetto, ma anche sull’efficienza.
Molte “ciàcole” nei calle e nei campielli, poche ciàcole quando si dovevano affrontare i grandi temi della vita pubblica, e prendere le decisioni supreme. Qui la parola spettava at tecnocrati, allora chiamati “sai”, cioè gli esperti di chiara fama.Quando si trattò di deviare i fiumi che interravano la laguna, furono minacciate pene severe at dilettanti, ai “non addetti at lavori” che pretendevano di interferire nelle decisioni dei tecnici.
Il lavoro degli artigiani, degli anonimi ma indispensabili lavoratori del ferro, del legno, del vetro, era tenuto in tanta considerazione che chi aiutava un artigiano a uscire dai territori della Serenissima, o lo rapiva, veniva duramente punito, e qualche volta si mandò il sicario, a Firenze o a Parigi, a uccidere l’artigiano che aveva esportato i segreti dell’arte. Davanti gli interessi nazionali, la Real politik veneziana non guardava in faccia nessuno.
Nel 1204, la Repubblica accettò di portare in Terra Santa i soldati della quarta crociata, servizio di nolo per conto ferzi, e partirono sotto la guida dell’ottantenne doge Enrico Dandolo,cantando il Veni Creatore Spiritus. Ma non si era ancora spenta l’eco del sacro inno, che i trasportatori s’accorsero che le armate franche non avevano gli 85.000 marchi pattuiti per il viaggio, e allora stabilirono un pagamento, diciamo, in natura, facendosi prestare aiuto nel’assalto a Zara e a Costantinopoli.
Partiti per distruggere l’infedele, i Veneziani fondarono un impero, l’Impero latino d’Oriente, il doge divenne “signore di un quarto e mezzo dell’Impero romano”. Innocenzo III fulminò la scomunica, ma Venezia non tremò.
1508, lega di Cambrai: altra sfida.
Venezia si trovò sola, contro tutto l’Occidente, papa Giulio II in testa. Ma non crollo.
Nel 1606, pochi decenni dopo aver collaborato a Lepanto alla vittoria cristiana sui Turchi, la Repubblica respinse la pretesa pontificia di sottrarre at suoi tribunali due preti colpevoli di reati comuni.
Altra scomunica, ma il clero locale si schierò col doge. Sempre nel nome di S. Marco. Era questo il palladio della città, il simbolo nazionalreligioso che cementò in pace e in guerra, dai primi secoli di vita magra sulle inospitali lagune, sino at fastigi di primap otenza mediterranea, l’ unione del popolo.
Chi entra nella basilica di S. Marco può vedere, a destra dell’altar maggiore, un mosaico che racconta, con la tecnica del fumetto, come fu rapito il corpo del santo, nel porto di Alessandria d”Egitto IX sec.).
Perlustrando una barca in partenza, un doganiere si ritrae inorridito. pronunciando la parola kanzir, “maiale”. Gli astuti trafugatori, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. avevano nascosto i resti del santo sotto i quarti di un suino, carne vietata dalla religione musulmana.
Grazie al ribrezzo teologico suscitato nella guardia, i due veneziani strapparono al’Egitto la preziosa salma e la portarono a Venezia, deve il santo trovò finalmente la pace annunciatagli dall’angelo: Pax tibi_Marce evangelista meus, dentro una splendida chiesa,fatta costruire apposta dal doge.
La basilica di S. Marco divenne la cappella palatina del doge, la cattedrale restò per secoli relegata aS. Pietro di Castello, per sottolineare la separazione del potere spirituale dal temporale.
Talvolta, era questo che si serviva di quello peri suoi fini. In S. Marco i generali deponevano la spada vittoriosa. In S. Marco il s doge neoeletto veniva presentato al popolo con laf ormula: “Questo xe missier lo dose, se ve Piase”, e dopo morto veniva portato dagli arsenalotti davanti all’altar maggiore e alzato per nove volte, perché tutti lo vedessero. “Il salto del morto” diceva la gente, con affettuosa irriverenza. Questa immagine dice molte cose sul carattere lepido dei Veneziani.
“Cantano sulle piazze, per le strade e nei canali” scrive Carlo Goldoni, “i venditori cantano smerciando la loro mercanzia; cantano gli operai lasciando il lavoro, i gondolieri aspettando i padroni. Il carattere fondamentale di questa nazione è l°allegria, quello della lingua veneziana è la scherzosità.”.
Su Venezia, e possiamo aggiungere su tutto il Veneto, soffia un costante venticello d”ironia, ammiccante riduttiva. I nomi tendono al diminutivo, la sposa novella è sempre una sposta, non esistono poveri, tutt’al al più Poareti.
Fa più tenerezza. In un documento padovano del 1306 il titanico Dante si rimpicciolisce in un Dantino quondam Alligerij de Florentia. Il dialetto veneto preferisce al sussiegoso passato remoto (io dissi, io feci) il confidenziale passato prossimo (mi go dito, mi go fato) che, ravvicinando l’azione al presente, sembra eliminare la profondità del tempo, come i mosaici bizantini eliminano quella dello spazio.
Venezia é città teatrale e sociale come poche altre, con scarsa Privacy, tutto avviene in pubblico, nelle calli le voci del barbiere, del lattaio, del fruttivendolo rimbombano come dal fondo d’un pozzo. E un’umanità di pedoni non gua stati dall’auto, perverso strumento d’antropofobia, i quali attraversano, a leggero contatto di gomiti, assai meno alienante del contatto di paraurti, tutti i giorni gli stessi ponti, gli stessi campielli, il professionista accanto all’operaio, la contessa accanto alla comare, come i palazzi patrizi sul Canal Grande sono attaccati, sul retro, alle modeste casette proletarie. Città teatrale ma non melodrammatica, dove il dolce dialetto, cullandosi in un soi`a di vocali, sdrammatizza i sentimenti, e il marito d’una donna troppo giovane prega » con un mesto sorriso: “Signor,fè che no sia beco; se lo son, fe che no lo sapia; se lo so, f che no me rabia”.
I Veneziani parlavano in dialetto con il Signore e con il Turco. Furono i primi ad abolire il latino dagli atti ufficiali, i decreti del doge erano scritt1 in veneto, tutti usavano, umili e potenti, la medesima lingua, il che rafforzò la comunione dei pensieri e delle parole.
Dall’Oriente greco importarono vocaboli tuttora in uso, Piròn (forchetta), anguria (cocomero). Ci fu un momento in cui l’anima orientale di Venezia, prima città italiana veramente cosmopolita, stava per prevalere su quella occidentale, e fu quando, nel XIII secolo, si discusse il trasferirnento in massa a Costantinopoli.
Per un solo voto, poi chiamato “il voto della Provvidenza”, la proposta cadde. Sulle rive del Bosforo i Veneziani si sentivano di casa come su quelle del Brenta e del Piave. Il doge Domenico Selvo sposò una principessa bizantina.
Dall’ippodromo di Costantinopoli asportarono la quadriga di bronzo, bellissimo soprammobile per S. Marco, oggi intaccata dallo smog e ridotta a tre cavalli, poiché uno è stato rinchiuso in una “stalla” ad aria condizionata, per gli accertamenti del caso.
Dall’Oriente importarono anche l’ideale greco del kaloskagathzôs, ovvero la coincidenza di bellezza e bontà. El xe un bogasso, dicono a Venezia, “è un buon ragazzo”(concetto etico). Co sto vestito te Panbo, “con questo vestito sembri elegante” (concetto estetico). Vogliamo forzare il discorso e dedurre da questa ambivalenza dell”aggettivo buona parentela tra forza morale e amore della bellezza? È forse eccesivo supporre, nella mente di chi volle questi palazzi magnifici, queste chiese dorate, questo impareggiabile splendore d’arte, un’ostinata passione civile, un veemente orgoglio dell’azione, quasi una sfida ai secoli futuri?
Poi cominciarono le disgrazie.
Tre sono le date fatali nella storia della città: il 22 novembre 1497, il 17 ottobre 1797, il 4 novembre 1966. Sempre in autunno.
La sospettosa serenissima vigilava su tutto; Guai a chi nei boschi del Cadore abbatteva gli abeti destinate alle sue navi. Proibito fin dal 300 lavorare in città materie, come la pece, che faceva un fumo malsano: sono quasi un presentimento di Marghera.
Proibito piantare pali in laguna, perché Palo fa palude. Ma non poté impedire le esplorazioni geografiche. Il 22 novembre 1497, quando il portoghese Vasco de Gama doppiò il capo di buona speranza dimostrando che l’Africa era circumnavigabile, cominciò la decadenza di Venezia.
Dal mare le erano venute la salvezza e la ricchezza, dal mare adesso veniva la sentenza di morte. Il Mediterraneo non era più indispensabile per trafficare con le Indie. Vasco da Gama diede un colpo decisivo ai suoi commerci, Napoleone alla sua libertà. il 17 ottobre 1797 essa passava all’Austria, in virtù del trattato di Campoformio, consenziente l’imbelle Senato, che cinque mesi prima, con Napoleone alle porte, aveva votato, con 512 voti favorevoli e 20 contrari, la fine della Repubblica.
Poi i senatori e il doge Lodovico Manin, gettati abiti e insegne, si erano dispersi per la città.
Era lo stesso Senato che otto anni prima, alla morte del doge Paolo Renier, ne aveva tenuta nascosta per alcuni giorni la notizia, per non turbare le feste del carnevale.
Quando un popolo arriva a queste menzogne con se stesso, vuol dire che ha vissuto, e festeggiato, anche troppo.
Più infausta di tutte la data del 4 novembre 1966, perché ha messo in gioco non i commerci o la libertà di Venezia, ma la sua stessa esistenza fisica.
Quel giorno l’azione congiunta della marea e dello scirocco alzò la laguna all’altezza paurosa di 1,94 m sopra il livello medio, tutta la città fu allagata, gli abitanti si rifugiarono ai piani superiori, sui tetti; pareva che il mare la sommergesse per sempre, come già aveva fatto nei secoli con altre isole della laguna.
Pareva che stesse per realizzarsi la disperata profezia di Byron: “oh Venezia, Venezia. Quando le mormoree mura saranno invase dalle acque, si alzerà un pianto delle nazioni sulle tue dimore sommerse, un alto lamento lungo il mare che tutto ricopre. Sei io, un nordico errante, piango per te che cosa dovrebbero fare i tuoi figli?”
I figli non erano del tutto innocenti di quel cataclisma, imputabile certo anche a ragioni fisiche, all’eccezionale violenza del mare, all’innalzamento del suo livello prodotto dal disgelo della calotta polare. Ma erano stati i figli a provocare l’abbassamento del suolo, pompando dissennatamente acqua in terraferma per le assettate industrie di Marghera.
Erano stati i figli a spacciare le barene come un affare in una colossale speculazione sull’acqua fabbricabili, e ogni nuovo stabilimento che avanzava in laguna ne diminuiva il bacino, rubando spazio alla libera espansione delle maree, di modo che ciò non va in larghezza, va fatalmente in altezza.
Erano stati loro a trascurare la manutenzione dei Murazzi, gigantesca muraglia costruita nel 700 davanti a Pellestrina.
La notizia che la più fragile e preziosa città del mondo era andata sott’acqua suscito ovunque un’emozione fortissima. Decine di paesi si mobilitarono per salvarla. Intervenne l’Unesco, ogni nazione adottò una chiesa, un palazzo da restaurare a proprie spese. Fu concesso un prestito internazionale di 500 milioni di dollari, che il governo italiano, con abile gioco di prestigio, dirottò altrove. sicché quei denari, stanziati per salvare la città, non sono ancora giunti a destinazione.
Il fatto è che quando si dice Venezia, il mondo intende una cosa, mentre altri, più attenti alle correnti politiche che a quelle dell’Adriatico, ne intendono un’altra: Mestre. anni fa, qualcuno affermò cinicamente che non era il caso di fare tanto rumore per Venezia che tramonta. E la ruota della storia, che le impone il destino già toccato a Torcello, a Malamocco. Venezia amore?
Non preoccupiamoci, il suo posto verrà preso da Mestre, la città emergente che ha tante ciminiere quante Venezia ha palafitte, e piacerebbe molto a Marinetti. Le cifre danno ragione a Mestre. Venezia, cheNei secoli scorsi era la seconda città per popolazione, dopo Napoli, nel 1950 aveva 184.447 abitanti, scesi nel 1976 102.000. Nel 1976 si sono registrate a Venezia 805 nascite, contro 1802 decessi. La popolazione invecchia. Scarse le attrezzature e le attività sportive. La squadra di calcio langue in serie B. L’orgoglio marinaro della Venezianità rivive, con un guizzo fugace, nell’annuale voga lunga, che vede migliaia di imbarcazioni impegnate nel giro della laguna, alla riscoperta delle antiche acque natali, quasi un ritorno all’utero materno.
A Venezia, contrariamente a quanto si crede, non mancano i posti di lavoro, dato che 17.000 pendolari si recano tutte le mattine nel centro storico.
Mancano casi salubri e decenti, 1500 abitazioni sono prive di servizi igienici, i 4600 appartamenti a pianterreno sono perennemente insidiati dall’umidità and minacciati dalla marea. La regina dei mari all’acqua in camera da letto.
La legge speciale varata dopo il disastro del 4 novembre 1966 ha bloccato alcune iniziative essenziali per la città: la costruzione della terza zona industriale, l’ulteriore sviluppo dell’industria chimica e petrolchimica, corresponsabile dello smog inquina l’aria è sbriciola le pietre. Non si vaneggia più di avveniristiche autostrade trans lagunari e Sub lagunari.
Ma la legge, o chi ne fa le veci, non era riuscita nella cosa più urgente, il risanamento edilizio. E la gente scappa a Mestre, in cerca di una casa abitabile. Tra Venezia e Mestre, tra madre e figlia, non corre buon sangue.
Nonostante l’osmosi demografica, la distanza psicologica e la divergenza di interessi sono assai maggiori degli otto chilometri di ponte, che il conte Vittorio Cini, suo fautore negli anni 30, poco prima di morire disse, pentito, che sarebbe stato contento di poter spezzare con le proprie mani.
Venezia ha sempre considerato Foresti i Maestrini, aggregati fino a pochi decenni fa alla diocesi di Treviso.
Anche il dialetto ha delle inflessioni diverse: El se de Mestre sentenziano con dogale superiorità i nostalgici del perduto splendore insulare, irritati dal fatto che Mestre assorbe l’80% del bilancio comunale. Meglio creare due comuni, incalzano i separazioni visti, sono due città diverse, due culture che non hanno nulla in comune.
Quel che è peggio, si ignorano.
E si persiste nell’equivoco di chiedere, nel nome di Venezia, come lo scavo del canale dei petroli, utile per portare navi a Marghera, ma disastroso per il precario equilibrio idraulico della laguna. I contrari al divorzio amministrativo temono, invece, che questo devitalizzi ancor pia il centro storico, trasformandolo lentamente in un museo, una mummia lagunare per miliardari in caccia di emozioni.
La polemica è aperta e durerà chissà quanto.
Perché un altro flagello abbattutosi sulla città dopo il 4 novembre è l”alluvione d’inchiostro, l”uragano di di battiti, tavole rotonde, commissioni e sottocommissioni, comitati e sottocomitati, convegni di idraulici, di geologi, di urbanisti, piani regolatori, piani com prensoriali e piani particolareggiati, zona A di assoluto rispetto, zona B per le nuove costruzioni, assemblee, ordini del giorno, interviste: insomma, una straordinaria produzione di ciàcole in una città che chiedeva urgentemente i fatti.
La battaglia per Venezia ha due nemici, la natura e l’uomo. Il meno preoccupante è la natura. Sarà un nemico crudele, ma non bara, non dice bugie. Distrugge con lealtà. Non fa come gli uomini, che distruggono ungendo o illudendosi di salvare. Pochi anni fa Diego Valeri, il poeta di Venezia, parlando in Palazzo Ducale ad alcuni esperti internazionali, disse in francese, sulla falsanga d’una famosa ballata: “Princes, sauveg Venose, mais Prenez Garda, ne la sauvez Pas top” (“Principi, salva te Venezia, ma attenzione, non salvatela troppo” ). Il vecchio e quasi cieco poeta, nella sua casa in fondamenta dei Cereri, Dorsoduro, poco prima di morire. ebbe a dire, conversando con alcuni amici: “Venezia è un’atmosfera umana, la vera casa dell”uomo”. Molti, a cominciare da Thomas Mann, hanno voluto sentirne solo la bellezza guasta, la stanchezza febbrile. Per i decadenti Venezia è una gran tomba sospesa sulle acque. Errore. Venezia è una città che sveglia i sensi della vita e invita alla gioia. La bellezza è forza, è una comunicazione di forza”. Mentre il poeta parlava. salì dal sottostante rio l’urlo d’un barcaiolo, che portava la verdura a Rialto. Il poeta commento: “Passa sempre a quest’ora, e la bellezza di Venezia è tetta soprattutto di queste piccole cose quotidiane, pia ancora che dei monumenti d’oro e dei palazzi a trine. Ascoltando il grido dei gondolieri in volta de canal, Wagner ebbe l’ispirazione per il lamento dell’oboe, nel terzo atto del Tristano”.
Venezia, la città inimitabile creata dal fango, mira oolo grande, quasi come quello di Domineddio che col tango creò l’uomo, è una città vitale perché è fatta di olore e luce, e la luce è vita. Sembra assurda, incredibile, solo a chi è talmente guasto di vita artificiale, e vertiginosamente lontano dalla natura, da giudicare assurdo, illogico chi alla natura è rimasto fedele, e Venezia è consustanziata delle due cose pia naturali che esistano, l’acqua e la luce. Il grande architetto svizzero Le Corbusier la definí “un dono di Dio che non si deve toccare”.
Il poeta americano Ezra Pound e il compositore russo Igor Stravinskij vollero essere sepolti a Venezia. Artisti e uomini di cultura, di tutte le origini e tendenze, l’hanno scelta come residenza o luogo d incontro, per la sua extraterritorialità spirituale. Peggy Guggenheim le ha donato un museo, l’ambasciatore Ashley Clarke guida con entusiasmo Venice in Peril uno dei tanti comitati internazionali per il pronto soccorso architettonico. Al Florian e al Quadri suonano le orchestrine, mentre Venezia lentamente affonda. Viene in mente il Titanic. Rispetto at primi anni del secolo, la velocità di sprofondamento si è raddoppiata, siamo arrivati alla media paurosa di 2,80 millimetri l’anno.
S. Marco “cede” dalla parte delle Mercerie, come una nave che si corichi su un banco, si cerca di rafforzarne le colonne con endovenose di cemento. Il terremoto del Friuli ha invecchiato la città di trecento anni. In una mostra di disegni, fatti da scolari di tutto il mondo, i bambini si sono divertiti, con la crudeltà dell”innocenza, a raffigurare una Venezia sommersa, visitata da comitive di turisti sub, altri hanno popolato piazza S. Marco di corvi al posto dei piccioni, i più ottimisti hanno deciso di salvarla appendendola at palloncini.
Dice una leggenda che ogni volta che si toccano i cavalli della basilica succede qualcosa di grosso sulla scena del mondo. Guardiamo le date. 1204: nasce l’Impero latino d’Oriente e i cavalli migrano a Venezia. l707: Venezia passa all’Austria e i cavalli se ne vanno a Parigi. Ritornano nel 1815, dopo Waterloo.
22 maggio l8l5: arriva l’ordine di sfollarli, due giorni dopo l’Italia dichiara guerra all’Austria. l8l7, rotta di Caporetto: gli instancabili galoppatori passano, via Po, a Cremona. L’Impero degli Asburgo ha i mesi contati. Dicembre l842: trasferimento sui Colli Euganei, l’Impero di Vittorio Emanuele III entra in agonia.